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Nel nostro catalogo puoi trovare Oggetti e Opere d'Arte dal XVI° secolo fino ai giorni nostri. Arte antica, icone, arte contemporanea, pittura antica, arte dell'800 e del '900; questa sezione è la nostra "Galleria"

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Gerrit Van Honthorst Ambito di
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Gerrit Van Honthorst Ambito di

Gesù davanti a Caifa

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Gerrit Van Honthorst Ambito di

Gesù davanti a Caifa

Olio su tela. Il dipinto riprende l'opera del maestro olandese Gerrit Van Honthorst, realizzata nel 1617 e oggi conservata alla National Gallery di Londra. Olandese di nascita, van Honthorst giunse a Roma poco dopo la morte di Caravaggio, di cui assimilò lo stile, che gli valse il soprannome di “Gherardo delle Notti". A Roma l'artista fu ospitato dalla famiglia Giustiniani, che gli commissionò l'opera per la sua collezione privata, ove essa rimase sino al 1804. Portata dapprima a Parigi presso la collezione Bonaparte, dopo ulteriori passaggi di proprietà, giunse infine a Londra nel 1922. Il dipinto racconta l'episodio drammatico dell'incontro tra il sacerdote Caifa e Gesù, durante la sua Passione. Tutta la parte superiore è occupata dal buio: il vuoto, il nulla, fanno concentrare l'attenzione sui due protagonisti e sul dramma che si sta svolgendo. La scena è fortemente statica, quasi bloccata in un momento preciso, l'atto accusatorio del sacerdote nei confronti del Cristo, a sottolineare l'intensità del dramma interiore, profondamente doloroso. Nella scena, Caifa è a sinistra, seduto al tavolo su cui è posato il libro della Legge ebraica, e solleva il dito in tono accusatorio; Gesù è a destra, in piedi, le mani legate, in atteggiamento umile. Al centro una candela, unica fonte di luce, che fa da raccordo tra il volto di Caifa e quello di Gesù, che si incontrano in un gioco di sguardi lungo una linea diagonale, e di cui la luce artificiale sottolinea impietosamente il contrasto espressivo, grottesco e arrabbiato quello del sacerdote, sofferente, ma luminoso e composto quello del Cristo. Sullo sfondo, dietro i due protagonisti, sono presenti le figure di altri sommi sacerdoti. Sono solo ombre nel buio, attendono il giudizio e le loro facce sono avvolte nell'oscurità che aumenta la tensione. Ben si coglie, nel contrasto di luci e ombre, nell'intensità degli sguardi, l'impronta caravaggesca. La tela qui proposta, di dimensioni circa la metà dell'originale, ma fedele nei moduli stilistici e interpretativi, fu probabilmente commissionata in misure ridotta da chi aveva apprezzato l'originale a palazzo Giustiniani. Essa è stata restaurata e ritelata nel XIX secolo. Sul retro sono scritti alcuni nomi, indicazione di proprietà. Cornice in stile.

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Giuseppe Zais
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Giuseppe Zais

Paesaggio Fluviale con Pastorella Fanciullo e Armenti

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Giuseppe Zais

Paesaggio Fluviale con Pastorella Fanciullo e Armenti

Olio su tela. Il dipinto è corredato delle perizie di due storici dell'arte, il dr. Dario Succi e la dott.ssa Federica Spadotto. Entrambi confermano l'attribuzione del dipinto a Giuseppe Zais, "il maestro bellunese unanimemente riconosciuto come uno degli interpreti più originali e genuini della grande pittura di paesaggio del Seicento veneto." Nel paesaggio, sotto le fronde di un albero che fa da cornice a sinistra e con lo sfondo di montagne azzurrate, campeggiano in primo piano una pastora e il figlioletto che fanno abbeverare al fiume le loro bestie (pecore e mucche). lo Zais, dopo una prima formazione nel paese natio alla scuola del conterraneo Marco Ricci, trasferitosi a Venezia nel 1732, divenne presto parte della schiera di paesaggisti lagunari, apprezzati ed ingaggiati per grandi opere decorative nei palazzi della città. Negli anni '70 lo Zais abbandonò tale produzione e scelse di dedicarsi solo ad opere di piccole dimensioni, che riflettevano un'adesione al mondo degli umili e una dimensione contemplativa del passato, raramente soggetti presenti nei dipinti dei committenti importanti. L'opera qui presentata si può considerare un esempio di quest'ultima fase creativa, collocabile secondo gli storici dell'arte negli anni '70 del XVIII secolo: lo Zais propone un paesaggio pedemontano, piuttosto brullo, dove la pastora seguita dal figlioletto svolgono il loro incarico, senza alcuna concessione ad una bellezza ideale, ma piuttosto con un richiamo ad una vita reale precisa, dura, semplice, fatta di fatica e insieme affetti. Anche i colori della tela esaltano l'empatia dell'artista per il mondo che raffigura: le calde tonalità bruno-dorate del paesaggio, rischiarate dall'azzurro delle cime lontane riverberanti quello del cielo, avvolgono le figure umane e animali in primo piano, che emergono grazie a pennellate materiche e a colori più accesi ma non squillanti, soprattutto nel vello degli animali e negli abiti della donna. Peculiare dello Zais sono anche i volti, rotondi e pieni, con lineamenti che si ripetono sempre identici nelle figure contadine delle sue opere, associati a corpi torniti, rivestiti di abiti che paiono di cartapesta. L'opera presenta segni di restauro, benchè ancora in prima tela. Sul retro è presente una scritta in tedesco con il nome del precedente proprietario e la data "Natale 1977". E' presentata in cornice dorata di inizio '900, con piccole rotture e mancanze.

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Veduta dei Fori Imperiali di Roma
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Veduta dei Fori Imperiali di Roma

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Veduta dei Fori Imperiali di Roma

Olio su tela. L'ampia veduta dei Fori imperiali di Roma rientra nella vasta produzione vedutistica del periodo del Grand Tour, destinata ai ricchi aristocratici europei in viaggio per l'Europa - e in particolare in Italia, ove Roma era considerata meta obbligata -, che volevano un ricordo dei luoghi visitati. I Fori Imperiali romani sono un complesso architettonico composto da una serie di edifici e piazze monumentali, centro dell'attività politica di Roma antica, edificate in un periodo di circa 150 anni, tra il 46 a.C. e il 113 d.C. Nonostante gli ampliamenti, gli incendi, i restauri e le ricostruzioni, nel corso dell'Antichità i Fori Imperiali mantennero intatte sia la loro conformazione architettonica che la loro funzione. La loro distruzione quasi definitiva avvenne durante il Rinascimento per mano di Papa Giulio II (1503-1513), che sfruttò tutta l'area come cava di materiali da riutilizzare nel progetto di rinnovamento edilizio e artistico della città da lui avviato. A poco valsero le proteste di artisti di primo piano come Raffaello e Michelangelo. Nei secoli successivi furono intraprese varie campagne di scavo, con maggiore vigore a partire dal XIX secolo, ma l'area fu completamente scavata agli inizi del XX secolo e le architetture antiche furono quasi del tutto cancellate per fare spazio alla realizzazione di via dei Fori Imperiali, che collega Piazza Venezia con il Colosseo. Il Foro fu riscoperto a partire dal Cinquecento anche grazie ai pittori di vedute romane che in quel periodo amavano dipingere le rovine affioranti nell'area del pascolo. La veduta qui proposta presenta i Fori Imperiali prima degli scavi iniziati nell'Ottocento, quando appunto ancora non era stata realizzata la via che li attraversa tuttora: essi sono ancora circondati da una verde campagna e sullo sfondo si stagliano i colli romani. Restaurato e ritelato, il dipinto è presentato in cornice dell' 800 riadattata.

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La Fuga di Enea da Troia
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La Fuga di Enea da Troia

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La Fuga di Enea da Troia

Olio su tela. Tutta la scena è giocata sui chiaroscuri del nero e del rosso, con le alte fiamme che divampano tra le torri e le guglie della città: in primo piano le figure di Enea con il padre Anchise in spalla e il figlioletto Ascanio al fianco, mentre fuggono dalla città; a destra, in secondo piano, il cavallo di Troia. Seppur vicino allo stesso soggetto di Alessio De Marchis (1684-1752), il dipinto rimanda piuttosto come stile alla pittura fiamminga. Restaurato e ritelato. E' presentato in cornice antica.

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Giovanni Boni
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Giovanni Boni

Scena d'Assedio

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Giovanni Boni

Scena d'Assedio

Olio su tela. Al di fuori delle fortificazioni di una città un condottiero, attorniato dai suoi soldati, si accinge ad accendere la miccia del cannone. L'esercito difende la cittadella al di fuori delle mura e i soldati scrutano l'orizzonte guardando verso il basso: ciò induce a collocare la scena sulle fortificazioni di una città, in particolare di quelle di Genova che si ergono sulle montagne retrostanti e dalle quali i genovesi difendevano la città dagli attacchi provenienti dal mare; la collocazione a Genova è avallata dallo stendardo che sventola sulle mura, la Croce di San Giorgio (croce rossa in campo bianco) vessillo della Repubblica di Genova. La foggia delle armature, delle armi e delle vesti rimanderebbe all'assedio di Genova del 1522. Si tratta quindi della rappresentazione ottocentesca di un episodio storico, che rientra perciò in quella produzione pittorica diffusa ampiamente in Italia nel XIX secolo, ispirata al nuovo romanzo storico proposto dalla letteratura. Sul retro del telaio è riportato il nome G. Boni, insieme a un numero che rimanda alla partecipazione a mostra ufficiale. Giovanni Boni fu allievo dell'Accademia di Brera, in particolare seguace di Giuseppe Sogni, artista che tra i primi predilesse la pittura a soggetto storico nelle sue innovative declinazioni romantiche. Del Boni non si conosce molto, nè dal punto di vista biografico nè della sua produzione. Di sua sicura attribuzione si conosce solamente il Nudo d'uomo (Accademia dipinta) con cui vinse il primo premio per la Scuola del Nudo a Brera nel 1852. L'opera rende con efficacia espressiva le figure e il pathos della scena; i personaggi in primo piano sono molto ben caratterizzati nelle pose, nelle espressioni, nei dettagli degli abiti e delle armi, mentre poi le altre figure sfumano in secondo piano, suggerendo la presenza di un esercito numeroso. Il dipinto, ancora in prima tela, presenta piccole diffuse cadute di colore. E' presentato in cornice in stile.

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Grande Paesaggio con Scena di Caccia
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Grande Paesaggio con Scena di Caccia

Caccia al Cervo

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Grande Paesaggio con Scena di Caccia

Caccia al Cervo

Olio su tela. La scena, ambientata in una campagna boschiva, presso della rovine architettoniche, è centrata sul movimentato e ricco gruppo di figure di cacciatori, vestiti alla foggia di cavalieri, che armati di spade e lance e con l'aiuto dei cani, danno il colpo finale al cervo ormai ferito e agonizzante. Il grande formato evidenzia la committenza importante, sottolineata anche dall'abbinamento a dipinto simile. Lo stile rimanda alla pittura del nord-ovest italiano; quadri di tal formato e di tali soggetti, spesso in coppia, si trovavano diffusamente nei piccoli castelli piemontesi e lombardi: ad esempio, nell'inventario del 1739 del castello di Orio Canavese (a nord di Torino) sono descritti, nel salone centrale, “due quadri grandi bislonghi rapresentanti due caccie una del Cervo, e l'altra del Cinghiale senza cornici”, che poi si ritrovano, dopo vendite successive in altri inventari. Restaurato e ritelato. Presentato in cornice in stile.

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Grande Paesaggio con Scena di Caccia
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Grande Paesaggio con Scena di Caccia

La caccia al Cinghiale

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Grande Paesaggio con Scena di Caccia

La caccia al Cinghiale

Olio su tela. La scena, ambientata alle pendici di un monte, presso le rive di un fiume ove è intento all'opera un pescatore con la lenza, è centrata sul movimentato e ricco gruppo di figure di cacciatori, vestiti alla foggia di cavalieri, che armati di spade e lance e con l'aiuto dei cani, danno il colpo finale al cinghiale ormai ferito e agonizzante. Il grande formato evidenzia la committenza importante, sottolineata anche dall'abbinamento a dipinto simile. Lo stile rimanda alla pittura del nord-ovest italiano; quadri di tal formato e di tali soggetti, spesso in coppia, si trovavano diffusamente nei piccoli castelli piemontesi e lombardi: ad esempio, nell'inventario del 1739 del castello di Orio Canavese (a nord di Torino) sono descritti, nel salone centrale, “due quadri grandi bislonghi rapresentanti due caccie una del Cervo, e l'altra del Cinghiale senza cornici”, che poi si ritrovano, dopo vendite successive in altri inventari. Restaurato e ritelato. Presentato in cornice in stile.

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Paesaggio con Figure e Cavalieri
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Paesaggio con Figure e Cavalieri

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Paesaggio con Figure e Cavalieri

Olio su tela. Nella grande scena ambientata in esterno spicca nella parte sinistra il laboratorio di un maniscalco, intento con i suoi aiutanti a lavorare i ferri per un cavallo mente il proprietario assiste; al centro sopraggiungono altri cavalieri con i loro servitori che si dirigono dall'artigiano; sulla destra alcune figure popolari a riposo sul ciglio della strada. Di sfondo si apre sulla destra un ampio paesaggio fluviale, mentre sulla sinistra vi è l'accesso al borgo, sovrastato da un palazzetto diroccato, con diverse figure popolari intente alle loro attività: la donna che sta per allattare un bambino, mentre l'altro figlio scappa su per la scalinata, un'altra donna che stende i panni sul balcone della casa edificata a palafitta sul roccione, mentre un uomo si arrampica sulla scala a pioli. Si tratta di un'opera realizzata con grande probabilità da un autore fiammingo operante in Lombardia. Alcuni richiami del vestiario e della costruzione indicano per certo la contaminazione nord-europea, mentre altri particolari indicano la localizzazione lombarda di realizzazione. Il dipinto proviene da una prestigiosa dimora storica di famiglia nobile lombarda. Ancora in prima tela, presenta nella fascia più bassa alcuni tagli e un buco; al retro alcuni rattoppi da vecchio restauro. E' presentata in sottile cornice coeva.

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Paesaggio con Sosta dei Cavalli
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Paesaggio con Sosta dei Cavalli

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Paesaggio con Sosta dei Cavalli

Olio su tela. La grande scena è ambientata all'entrata di un villaggio in prossimità di una sosta per i cavalli: numerosi cavalieri sono fermi con le loro bestie, a cui provvedono i servitori e i villani che riempiono di fieno la mangiatoia; uno dei servitori, sulla destra, fa abbeverare gli animali nel corso d'acqua che scorre lì vicino. Di sfondo, le case del villaggio disposte lungo il fiume, che a destra sfocia poi nel paesaggio collinare. Si tratta di un'opera realizzata con grande probabilità da un autore fiammingo operante in Lombardia. Alcuni richiami del vestiario e della costruzione indicano per certo la contaminazione nord-europea, mentre altri particolari indicano la localizzazione lombarda di realizzazione. Il dipinto proviene da una prestigiosa dimora storica di famiglia nobile lombarda. Ancora in prima tela, presenta nella fascia più bassa alcuni tagli. E' presentato in sottile cornice coeva.

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Grande dipinto attribuito a Tiburzio Passerotti ( 1553 -1612)
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Grande dipinto attribuito a Tiburzio Passerotti ( 1553 -1612)

Madonna con Bambino il Padre Angeli e Santi

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Grande dipinto attribuito a Tiburzio Passerotti ( 1553 -1612)

Madonna con Bambino il Padre Angeli e Santi

Olio su tela. Corredata di scheda attributiva ad opera del dottor Franco Moro. La tela rientra in un'ampia produzione sacra, che esaltava la gloria di Maria e dei santi vicini alla committenza. Al centro Maria siede su un trono con il Figlioletto in braccio, mentre in alto, dai cieli aperti, guarda a Lei benedicente il Padreterno, con il globo terrestre tra le mani, simbolo del suo potere sul mondo; Egli è affiancato da due angeli. Ai lati del trono stanno in piedi due Santi: a sinistra, San Domenico di Guzman, vestito dell'abito da domenicano e che regge tra le mani un giglio e un libro; sulla destra, nel suo caratteristico saio, San Francesco d'Assisi, che regge la croce a forma di Tau e un libro, e sulle cui mani si vedono i segni delle stimmate. Tutta la scena è caratterizzata dalla staticità delle figure tipica ancora del periodo rinascimentale, da colori vivi e da tratti dei visi composti e delicati. Peraltro alcuni tratti, eccentriche rispetto al comune atteggiamento neo raffaellesco del periodo, orientano verso l'ambito bolognese, nel quale si ritrovano in paticolare Bartolomeo e Tiburzio Passerotti. Rimandano in particolare a quest'ultimo alcuni aspetti stravaganti che scorrono in ogni dettaglio della tela: la corrispondenza coloristica di tinte vive e squillanti, gli allungamenti schematici degli arti inferiori, accentuati dal marcato segno di nero che caratterizza i contorni delle ciglia e delle sopracciglia, fino alla suadente forma della bocca. Restaurato e ritelato, il dipinto è presentato in cornice antica.

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Grande Dipinto a Soggetto Mitologico
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Grande Dipinto a Soggetto Mitologico

La Favola di Apollo e Marsia

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Grande Dipinto a Soggetto Mitologico

La Favola di Apollo e Marsia

Olio su tela. Scuola nord-italiana del XVII secolo. La grande tela deriva da un'incisione del 1562 ad opera del veneziano Giulio Sanuto, che riprendeva fedelmente l'opera omonima del Bronzino (1503-1572), attualmente conservata all'Hermitage; rispetto all'originale, l'incisione aggiunse il gruppo di Muse e modificò lo sfondo paesaggistico introducendo gli scorci dei paesi. L'opera è suddivisa in quattro scene, che vanno lette da destra verso sinistra. Nella prima scena è raffigurata la contesa musicale tra Apollo e il sileno Marsia, che suonava il flauto talmente bene da essere ritenuto superiore allo stesso dio; i due contendenti si stanno esibendo, il dio con la lira e il sileno con il flauto addirittura capovolto (per aumentare la difficoltà dell'impresa), davanti al re Mida e alla dea Minerva, riconoscibile dai suoi attributi, l'elmo, la lancia e lo scudo. Nella seconda scena Apollo è intento a scorticare Marsia, per punirlo dell'aver vinto la gara musicale; appoggiati per terra di fianco a lui, il suo mantello e la lira. Nella terza scena, è Re Mida ad esser punito dal dio per avergli preferito Marsia: Apollo sta infilando le orecchie d'asino a Mida, mentre Minerva assiste. Infine la quarta scena, in primo piano a sinistra, è caratterizzata da una figura particolare, identificata nel fedele servitore e barbiere del re: poichè Mida gli aveva ordinato di mantenere il segreto sulle sue orecchie d'asino, non potendo sfogarsi altrimenti, egli scavò una buca nel terreno e urlò lì dentro il suo segreto; in quel luogo però, la leggenda vuole che crebbe un cespuglio di canne che con il vento sussurravano "Re mida ha le orecchie d'asino", rivelando così il temuto segreto. Il dipinto è stato precedentemente restaurato e ritelato, ma necessita attualmente di eventuale ulteriore ripresa del colore. Sul retro a matita è presente una vecchia attribuzione alla scuola ferrarese ("Ercole da Ferrara"). E' presentato in cornice in stile di fine '800.

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Aronne con Mosè davanti al Faraone
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Aronne con Mosè davanti al Faraone

Attribuito a Antonio Molinari

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Aronne con Mosè davanti al Faraone

Attribuito a Antonio Molinari

Olio su tela. XVII-XVIII secolo. La grande scena racconta un episodio biblico del libro dell'Esodo, in cui Aronne con Mosè davanti al Faraone d'Egitto, trasforma il suo bastone in un serpente, ad emulare i trucchi che i maghi egiziani avevano fatto per spaventarli. Il Faraone assiso sul suo trono a sinistra, contornato dai servitori, e i maghi sulla destra, osservano il miracolo costernati e spaventati, mentre al centro Aronne, riconoscibile dal copricapo sacerdotale, indica l'evento mentre al suo fianco Mosè, con il dito alzato indica il cielo, per rimandare il miracolo alla potenza divina. Il serpente ha qui la foggia di un draghetto alato, che sta calpestando i serpenti dei magi egizi. La tipologia della scena e i modi pittorici rimandano alla produzione di Antonio Molinari (1655 -1734), uno dei più autorevoli rappresentanti della pittura veneziana a cavallo tra Sei e Settecento, che si distinse per un suo stile personale, caratterizzato da una accentuata teatralità dei gesti, da una tavolozza vivace e da una notevole fluidità della pennellata. Il Molinari ottenne un notevole successo con la produzione di quadri da stanza raffiguranti episodi di carattere storico, mitologico o biblico, che furono ampiamente ripresi e riproposti. La grande tela, restaurata e ritelata, è presentata in cornice in stile.

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Gruppo di Quattro Dipinti con Scene dell'Orlando Furioso
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Gruppo di Quattro Dipinti con Scene dell'Orlando Furioso

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Gruppo di Quattro Dipinti con Scene dell'Orlando Furioso

Olio su tela. Ambito lombardo della fine XVIII secolo. Le quattro tele propongono scene tratte dall'Orlando Furioso, il famoso poema epico scritto da Ludovico Ariosto e pubblicato per la prima volta nel 1516. Sul telaio, al retro, sono presenti scritte a mano in italiano antico, che dicono il titolo della scena e danno il riferimento del canto e della strofa. Tutte e quattro le scene rappresentano episodi tratti dai primi due canti del poema e risultano essere sequenziali. I titoli attributivi sono i seguenti: 1- “Questo quadro rapresenta quel Paladin galiardo (Rinaldo) figliolo di Amone sig. di Monte Albano, che lo descrive Ariosto a canto 1 a strofa 12” : è raffigurato il momento in cui Rinaldo, appiedato del suo cavallo Baiardo, scorge nel bosco Angelica fuggita dall'accampamento di Namo di Baviera. 2- “Questo quadro rapresenta Angelica e Ferraù quando gli si pone in aiuto, che lo descrive Ariosto al canto 1 strofa 14”: Angelica che fugge da Rinaldo, incontra nel bosco Ferraù, un nobile cavaliere saraceno anche lui innamorato della ragazza, che la aiuta a fuggire opponendosi al cavaliere cristiano. 3- “Questo quadro rappresenta Rinaldo e Sacripante che si abbatano, Angelica fugge dal furore di essi. La descrive Ariosto al Canto 2 strofa 10”: Rinaldo e Sacripante combattono per contendersi l'amore di Angelica, che però intanto scappa via. 4- “Questo quadro rapresenta Rinaldo e Sacripante nel atto che si abbatevano per Angelica e vengono fermati di un spirito in forma di Valletto. Lo descrive Ariosto al canto 2 strofa 15”: mentre i due cavalieri combattono, Angelica incontra un eremita, il quale, con un incantesimo, evoca uno spirito con le sembianze di un valletto, che interrompe il duello tra i due contendenti. I dipinti appartengono pertanto ad un unico ciclo pittorico, riconducibile alla fine del XVIII secolo e che, conformemente al gusto neoclassico, rappresenta i personaggi in abiti classici - i guerrieri vestiti come soldati antichi, Angelica abbigliata con tunica, calzari e bracciale da donna romana -, ma inseriti in un paesaggio del Nord Italia, una foresta ombrosa e fitta. L'Orlando Furioso ebbe la peculiarità di proporre il tema guerresco associato a quello amoroso (in particolare fu prediletta la storia d'amore tra Angelica e Medoro che divenne soggetto di numerose opere di artisti di tutti i secoli) ed ottenne grande popolarità e successo: numerose furono le sue rappresentazioni in tutte gamme dell'arte pittorica visiva, in affreschi signorili, quadri, ceramiche, anche vasi da farmacia, coppe, medaglie, pendole, candelabri. Si cominciò in terra emiliana, terra d'origine del poema realizzato dall'Ariosto per il cardinale Ludovico D'Este, per arrivare alle corti medicee, in Lombardia, ove successivamente cicli pittorici ariosteschi vennero realizzati in numerosi palazzi e dimore signorili. Le tele sono presentate in cornici dorate in stile.

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Domenico Gargiulo attribuito a
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Domenico Gargiulo attribuito a

Paesaggio con Architetture e Figure

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Domenico Gargiulo attribuito a

Paesaggio con Architetture e Figure

Olio su tela. Il grande paesaggio è dominato da una imponente struttura architettonica a colonne affacciata sul mare, che occupa tutta la parte centrale della tela, mentre sulla destra si delinea una fortezza. La scena è poi animata da numerose figure di popolani intenti alle quotidiane attività: in primo piano a sinistra, sulla banchina, un gruppo di uomini attende al carico di numerose casse e bauli. Sul baule centrale, vicino al personaggio dominante al centro che pare dirigere le operazioni, è inserito il monogramma D.G. Questa sigla insieme alla modalità stilistica barocca, rimanda l'attribuzione a Domenico Gargiulo, nome d'arte del pittore napoletano Micco Spadaro (1609/1612 – 1675). Attivo prevalentemente a Napoli soprattutto nei due decenni a cavallo della metà del XVII secolo, il Gargiulo si affermò principalmente come paesaggista e soprattutto per aver documentato i tumultuosi avvenimenti della Napoli del XVII secolo (eruzioni, epidemie, la rivolta di Masaniello). La progressiva specializzazione nella rappresentazione di paesaggi o scene cittadine, affollate da figurine presentate con descrizioni minute e con attenzione verso la realtà sociale popolare, fecero sì che la sua committenza fosse prevalentemente di carattere privato, ricevendo commissioni da numerosi notabili napoletani, reggenti, cavalieri e ritrovandosi sue opere in tutte le più importanti collezioni napoletane dell'epoca. Tra i suoi maggiori committenti vi fu peraltro anche il grande collezionista fiammingo Gaspare Roomer, a cui il Gargiulo dovette la sua fortuna. Il Gargiulo inserì spesso nelle sue opere le sue sigle, ma raramente le datò; si è potuto stabilire la datazione della sua produzione solo grazie alla realizzazione di una serie di lavori per i monaci della certosa di S. Martino, avvenuta tra il 1638 e il 1646, tra le poche opere a soggetto religioso da lui realizzate ma le uniche a essere documentati con una certa precisione. La grande tela qui proposta è presentata in cornice in stile.

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Dipinto di Paesaggio con Arcobaleno
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Dipinto di Paesaggio con Arcobaleno

Copia da Peter Paul Rubens

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Dipinto di Paesaggio con Arcobaleno

Copia da Peter Paul Rubens

Olio su tela. .Si tratta di una copia dal celebre dipinto di Peter Paul Rubens, realizzato intorno tra il 1632 e il1635, attualmente conservato al Museo dell'Hermitage. La grande scena pastorale presenta un ampio scorcio paesaggistico che spinge lo sguardo fino alla lontana costa marittima; su di esso il cielo si sta progressivamente aprendo lasciando intravvedere sprazzi d'azzurro sulla sinistra, mentre sulla destra, tra le nubi più scure residue dal temporale, si rivela un grande arcobaleno. In primo piano, un gruppo di pastori e pastorelle si dilettano in giochi amorosi, discinti e festosi, in mezzo ai loro armenti, che si riposano e si abbeverano al vicino ruscello. Tutta la scena è animata da una dimensione di gioioso relax e ristoro, come se l'arcobaleno avesse ridonato serenità all'ambiente, riportando la luce e con essa la serenità nel mondo. Rispetto al dipinto di Rubens, sono cambiati qui alcuni particolari, in particolare l'arcobaleno che risulta qui spostato a destra anzichè essere centrale; e le dimensioni inoltre sono maggiori di quelle dell'opera originale. Sulla cornice è riportata etichetta attributiva a Jacob Joardens, pittore fiammingo che fu seguace di Rubens, ma l'attribuzione non è convalidata. Restaurato e ritelato, il dipinto è presentato in cornice dorata in stile.

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Dipinto attribuito a Marco Ricci
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Dipinto attribuito a Marco Ricci

Mare in Burrasca

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Dipinto attribuito a Marco Ricci

Mare in Burrasca

Olio su tela. Come da etichetta al retro, il dipinto fu presentato alla "Mostra di pittura barocca veneziana" del 1943, con il titolo "In porto al tramonto" e l' attribuzione a Marco Ricci. L'attribuzione può essere motivata dalla capacità esecutiva, che attraverso pennellate rapide e sciolte, riesce a rendere pienamente con sensibilità la realtà naturale del mare in tempesta. Si vedano a tale proposito le immagini simili pubblicate da Rodolfo Pallucchini nell'articolo "Studi ricceschi: contributo a Marco" pubblicato nella rivista Arte veneta (vol. IX, 1955). Le produzioni paesaggistiche e le marine del Ricci (che peraltro non furono la sua produzione più ampia) sono caratterizzate da luci potenti ed emotive, da alberi secchi e contorti, rocce e torrioni, nuvole cumuliformi che si squarciano all'improvviso in vaghi sprazzi d'azzurro, onde spumeggianti, un repertorio complesso che trasfigura la natura in una rappresentazione drammatica e inquieta, nella quale è inserito anche l'uomo come elemento integrante. Anche in questo dipinto si ritrovano tali elementi altamente drammatici ma nello stesso tempo scenografici, con alcune figure umane, tre uomini su una barchetta in primo piano, che sono appena distinguibili dal mare e dalle rocce che li circondano, così come la nave sulla sinistra che naufragando inglobata dal mare. Restaurato e ritelato, il dipinto è presentato in cornice in stile.

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Dipinto del XVII Secolo con Scena della Cattura di San Tommaso d'Aquino
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Dipinto del XVII Secolo con Scena della Cattura di San Tommaso d'Aquino

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Dipinto del XVII Secolo con Scena della Cattura di San Tommaso d'Aquino

Olio su tela. Scuola toscana del XVII secolo. Rampollo di un'antica stirpe longobarda di Aquino (in provincia di Frosinone), Tommaso (nato intorno al 1226) andato a Napoli per studiare, nel 1243 entrò contro il volere dei suoi parenti nell'ordine dei predicatori domenicani, ma durante il viaggio verso il settentrione fu arrestato dai suoi fratelli e per circa un anno tenuto prigioniero. Nella scena il giovane santo al centro, già vestito dell'abito domenicano, è circondato sui due lati da quattro figure riccamente vestite, appunto i parenti, tra i quali probabilmente la madre, che lo trattengono benevolmente, quasi lo abbracciano, mentre con la gestualità delle mani e gli sguardi afflitti e amorevoli tentano di convincerlo, quasi supplicandolo. Le figure sono peraltro collocate in una prigione, come indicano le sbarre alla finestrella sulla destra, a sottolineare l'azione coercitiva compiuta. Ricchi e particolareggiati sono i dettagli delle vesti dei personaggi, dai colori vivaci che contrastano con l'abito di Tommaso, plastici i movimenti propriamente di gusto barocco. Già restaurato e ritelato, il dipinto si presenta in buone condizioni, con cretto evidente. E' presentato in cornice antica rilaccata e ridorata.

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Compianto su Cristo Morto
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ARARPI0094514
Compianto su Cristo Morto

ARARPI0094514
Compianto su Cristo Morto

Olio su tela. Scuola Nord Italia. Inserita in un paesaggio tardo rinascimentale, la composizione delle figure è disposta secondo una diagonale ascendente verso sinistra e più precisamente culminante con le tre croci sul Calvario in lontananza; centrale è il corpo del Cristo, disteso seppur anch'esso obliquamente, dietro il quale tre figure, S.Giovanni, Maria al centro e una pia donna, unica raffigurata in abiti del XVII secolo, probabilmente ritraendo un personaggio vicino alla committenza. L'opera può essere collocata nella produzione culturale lombardo-veneta della prima metà del '500, più precisamente nella attività pittorica fiorita tra Brescia, il Garda e Verona, che ebbe massima espressione nei modi manieristi di Giovanni Demio (1500-1570 ca). Si ritrovano in particolare nell'opera alcuni elementi, soprattutto nelle fogge di abbigliamento e nelle pose (per esempio del San Giovanni), che rimandano a modelli di stampo raffaellesco ampiamente utilizzati, grazie alla mediazione di incisori quali il Marcantonio Raimondi (1480 -1534 ca), che contribuirono alla diffusione delle opere dei maestri. Il dipinto, restaurato e ritelato, presenta ampi rifacimenti. E' presentato in cornice antica, databile intorno al XVII secolo, riverniciata.

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Allegoria dell'Amore
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ARARPI0097148
Allegoria dell'Amore

ARARPI0097148
Allegoria dell'Amore

Olio su tela. Scuola nord-europea. Si tratta di una divertente scena allegorica dell'amore profano, che vuole dimostrare come tutte le persone, di qualunque ceto sociale e di tutte le età, possono cadere nella trappola dell'innamoramento. Lo sfondo della tela è occupato da una enorme nassa, la rete a canestro usata in alcuni tipi di pesca, sopra l'imbocco della quale siede un putto violinista, intento a suonare; la nassa è affollata di coppie, mentre una sfilata di altre cammina davanti ad essa per raggiungerne l'entrata. Tra di esse vi sono coppie di anziani e di giovani, coppie di ricchi e di poveri, nobili, borghesi e proletari: tutti hanno espressioni liete e leggere, si lanciano sguardi innamorati o guardano benevolmente alla felicità degli altri. All''interno della nassa è presente addirittura una coppia di reali, che corrispondono per fattezze e abbigliamento all'elettore palatino della Renania, Giovanni Guglielmo del Palatinato-Neuburg e alla seconda moglie Anna Maria Luisa de'Medici. Al retro del dipinto è presente un'etichetta che riporta una storica attribuzione a Jan Frans Douven (1656-1727): l'artista olandese che dal 1682 si trasferì a Düsseldorf come pittore ufficiale alla corte dell'elettore palatino della Renania, realizzando soprattutto scene della vita quotidiana del principe e della sua seconda moglie. L'etichetta confermerebbe quindi l'ambito di attribuzione ad artista del XVII-XVIII secolo del nord-Europa. Il dipinto proviene da collezione storica milanese. Presenta tracce di restauri e un rattoppo. In cornice in stile.

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Ritratto di Bartolomeo De Olevano
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ARARPI0097144
Ritratto di Bartolomeo De Olevano

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Ritratto di Bartolomeo De Olevano

Olio su tela. Scuola lombarda. E' il ritratto in piedi di un uomo in armatura, in atteggiamento fiero, quasi in movimento, la mano poggiata sull'elsa della spada; in alto a sinistra uno stemma; in basso a destra un cartiglio dipinto con lunga scritta in latino, che identifica l'uomo. Si tratta di Bartolomeo III Olevano, appartenente alla potente famiglia dei nobili Olevano, feudatari di numerose località del pavese e della Lomellina (ove ancora esiste il loro castello), che ebbe gran voce nelle vicende di Pavia e del suo contado fino al secolo XVIII. Bartolomeo III, nato nel 1512, si dedicò all'arte della guerra per quarant'anni, compiendo numerose e onoratissime imprese, fu prefetto di Mortara e Novara durante la dominazione di Carlo V, maestro dei militi e ambasciatore di Filippo II. Nel cartiglio sono riassunte le sue imprese più importanti: è disponibile traduzione del testo. Lo stemma raffigurato presenta a sinistra la pianta dell'ulivo da cui la famiglia prese il nome. Il dipinto proviene da importante collezione di famiglia storica lombarda.

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